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Porre fine alla povertà nel mondo potrebbe sembrare un obiettivo utopico e irraggiungibile, un desiderio sordo e cieco ai colossali ostacoli che una tale sfida comporterebbe. Ma è davvero un sogno irrealizzabile? L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non è d’accordo, come dimostra l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, una risoluzione adottata dalla comunità internazionale che prevede 17 obiettivi (Sustainable Development Goals, ovvero obiettivi dello sviluppo sostenibile) da raggiungere entro il 2030, a cominciare dall’SDG 1: porre fine alla povertà in tutte le sue forme ovunque. La posizione di questo obiettivo, in cima all’Agenda, non è casuale, ma rispecchia le priorità dell’ONU, la quale ufficialmente considera l’eliminazione della povertà “la più grande sfida globale e un requisito indispensabile per uno sviluppo sostenibile”. 

Nel SDG 1 rientrano non solo l’eliminazione della povertà estrema (definita come la popolazione che vive con meno di 1,24 dollari al giorno) e la riduzione almeno della metà della percentuale di persone che vivono in povertà, ma anche lo sviluppo di misure di protezione sociale, dell’uguaglianza di genere nell’accesso alle risorse più fondamentali e di mezzi di protezione per i più vulnerabili contro i disastri ambientali ed economici. 

Ma cosa abbiamo fatto finora per raggiungere il primo degli SDGs? 

Da un punto di vista globale, oltre ai trattati multilaterali creati per stabilire standard e creare obblighi reciproci tra i paesi per coordinare la lotta contro la povertà, gran parte dei progressi sono il merito di organismi internazionali come l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia delle Nazioni Unite impegnata a promuovere la giustizia sociale e la tutela dei diritti umani, che attraverso la sua “End of Poverty Initiative” lavora per creare una rete globale tra gli Stati per sviluppare politiche volte a sradicare la povertà. 

Tuttavia, la maggior parte delle misure intraprese dalle organizzazioni internazionali mirano soltanto a facilitare le attività che gli Stati individualmente dovranno poi intraprendere attraverso l’implementazione di politiche a livello nazionale. Per citarne una, possiamo guardare alle strategie messe in atto da quei paesi che negli ultimi anni hanno dato le performance più eccezionali nella lotta globale contro la povertà. Tra questi annoveriamo la Tanzania, che una recente ricerca della Banca Mondiale ha classificato al primo posto tra i paesi che hanno maggiormente ridotto il tasso di povertà nazionale nei primi 15 anni del 21° secolo; tra il 2000 e il 2011 ha infatti ridotto la povertà estrema in media di 3,2 punti percentuali all’anno, quasi dimezzando le percentuali nell’arco di un decennio. È riuscita a farlo attraverso la sua strategia di riduzione della povertà incentrata sulla “riduzione della povertà di reddito, sull’aumento dell’accesso ai beni di prima necessità e sul miglioramento delle infrastrutture governative” (The Borgen Project). Più in dettaglio, ha implementato programmi di assunzione ed empowerment nei settori dell’economia in cui è coinvolta la maggior parte della popolazione povera e ha sviluppato soluzioni per soddisfare i bisogni personali dei poveri. 

Anche se nel primo ventennio del nuovo secolo ci sono molte altre storie di successo come quella della Tanzania da cui farsi ispirare, siamo ora costretti ad affrontare le disastrose conseguenze che lo scoppio della pandemia globale del Covid-19 ha avuto su questa curva di miglioramento, nonché l’ulteriore aggravamento della situazione della povertà nel mondo a causa dello scoppio della guerra in Ucraina. Le statistiche mostrano infatti che a causa di questi terribili eventi il tasso di povertà lavorativa è aumentato per la prima volta negli ultimi 20 anni. 

Tuttavia non dobbiamo lasciarci scoraggiare da questa battuta d’arresto, ma concentrarci sullo sviluppo di nuove politiche nazionali e sull’implementazione di una stretta cooperazione internazionale per porre fine alla povertà nel mondo. 

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